Una fuga a Kamakura

Kamakura dista da Tokyo appena un’oretta con i treni della JR. Un’oretta di annunci continui che dicono dove, che dicono quando, un’oretta di saluti di benvenuti e di addii, di moniti e raccomandazioni. Un’oretta in compagnia di queste voci che non puoi credere appartengano realmente a qualcuno, voci che in questo paese ti accompagnano ovunque, oltre che sui treni, nelle stazioni, sulle banchine, negli ascensori, negli autobus, sulle scale mobili.

Fortuna che i 2 km dalla stazione al Daibatsu (alto 13 metri, il secondo più grande del Giappone) li facciamo nel pieno silenzio di una cittadina che non è ancora del tutto sveglia, in un Giappone autentico nella sua estrema semplicità.

Kamakura offre comunque altre attrazioni, anche se pur sempre templi e santuari, dispersi nei boschi, poco distanti dal mare.

Ce n’è anche uno immerso in un incantevole boschetto di bambù… Come distogliere lo sguardo dalla lanterna di pietra immersa nel verde?!?!

In un altro troviamo uno dei simboli del Giappone: i 3 jizu sorridenti, fermi lì a rassicurare le anime dei bambini non ancora nati. E poi centinaia e centinaia di questi piccoli monaci viandanti dalla testa tonda e che non ti guardano mai. Così tanti che si finisce quasi per non vederli più, timorosi che si consumino con la loro presenza continua.

E ancora la grotta di Benten-kutsu, una divinità legata al mare, la sola femminile tra le sette della fortuna. Tutti i templi e i santuari a lei dedicati sorgono in prossimità di corsi d’acqua, mari, laghi o stagni. È inoltre la protettrice delle belle arti, della fortuna e della musica, per questo è solitamente rappresentata con un liuto in mano.

Alle 5 del pomeriggio decidiamo che non ne possiamo più di giardini zen, antiche statue di kannon, tavolette votive (qui anche ricavate dalle ostriche, in ricordo della dea che raggiunse l’arcipelago del Sol Levante a bordo di uno di questi gusci) e fuggiamo, per rientrare a Tokyo, allo shopping sfrenato e ignorante.

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