Lasciamo Evora e ci dirigiamo verso est, verso il confine con la Spagna. Perché se è vero che il Portogallo è essenzialmente un paese marittimo, un paese di gente che si è buttata nell’Oceano, è allo stesso tempo vero che da sempre ha dovuto difendere la sua indipendenza e la sua identità dai re castigliani, che bramavano un porto sul mare, a ovest.
Ed è proprio a Elvas, a 200 chilometri dall’Oceano e ad appena 10 dal confine con la Spagna che i lusitani eressero uno dei più begli esempi di architettura fortificata. Le mura integre della cittadina sono oggi testimonianza del ruolo strategico di un tempo. La sua cattedrale ha l’aspetto di una torre fortificata, ma come ogni edificio in Portogallo porta su di sé la stratificazione del tempo, degli usi e degli stili.
Appena dietro la cattedrale un pelourinho (o palo della gogna) a ricordarci il passaggio dei gesuiti. Divertente il fatto che anche questo presenti decorazioni tortili che rievocano i macarons della regina Maria Antonietta visti ad Alcobaça.
Fuori dalla cinta muraria l’acquedotto di Amoreira, uno dei più alti d’Europa, costruito tra il XV e il XVI secolo e poi il Forte da Graça.
Dalla terrazza della casa del governatore, posta al centro del Forte, si gode di uno splendido panorama su Elvas, la pianura dell’Alentejo e la Spagna, oltre un confine oramai inesistente.
Il pomeriggio andiamo a visitare Monsaraz, altro piccolo borgo di frontiera, preservato interamente nel suo aspetto originario. È un salto immediato nel passato, nel Medioevo. Non un antenna, non un cavo per la luce, non una cabina per la fibra ottica, non una pubblicità né alcuna insegna luminosa. È ben conservato, ma sembra una ghost town, una piccola Disneyland per adulti che comprano solo souvenir di qualità e rifuggono dalla paccottiglia cinese, che ricercano vini pregiati e cibi raffinati in atmosfere pseudoautentiche, purché frivole ed esclusive.
È comunque irrilevante; siamo appagati da un viaggio attraverso un Alentejo meraviglioso, ricco di colori e di profumi, in cui, tra dolci colline, sonnecchiano mucche, pascolano pecore e capre e, sotto un cielo di un azzurro tale da far star male, si alzano uliveti e vigneti. Un posto in cui perfino le cicogne costruiscono i loro nidi e tornano tutti gli anni a deporre le loro uova.
La sera in un’osteria a Mourão ci ritroviamo davanti ad un piatto povero a base di carne di maiale bollita, ceci conditi con olio e menta e un vino della casa, semplice e schietto, come la gente di qui, che tra un bicchiere e l’altro intona cori contadini per tutta la sera, cantando i lavori e i giorni, gli amori e i paesaggi.
È una vita modesta, fatta di cose essenziali, la vita di gente che solo di recente si è liberata del latifondo e si è riappropriata dei frutti del proprio lavoro, che resiste all’urbanizzazione e all’emigrazione.
In auto la radio ci culla con le note di una canzone di qui. Il video mostra molto di più di quanto non potremmo mai descrivere: “la disarmante semplicità del popolo portoghese, la sua mitezza e la sua forza, la pazienza e la caparbietà, la fiducia nella vita”. A. Tabucchi
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