Le previsioni del tempo oggi non promettono nulla di buono, quanto meno fino alle prime ore del pomeriggio, e il colossale monumento ai Conquistatori dello Spazio sembra voler aprirsi a fatica un varco tra le dense nuvole che si ammassano nel cielo di Mosca. Questa enorme freccia in acciaio, rivestita di titanio e alta oltre 100 metri è sormontata da un missile, ed è lì dal 1964 a celebrare il primo volo di Jurij Gagarin nello spazio. Dopo aver ammirato i busti dei cosmonauti e i fregi in bronzo sul basamento del monumento che raffigurano gli eroi della conquista spaziale, tra cui anche la cagnetta Laika, primi tra tutti su un lato Lenin e sull’altro una donna nelle vesti della Grande Madre Russia, decidiamo di visitare il museo che celebra i successi dei cosmonauti sovietici e russi, sì, perché da queste parti i semplici astronauti li lasciano agli americani.
Seppur la gran parte le didascalie sia in cirillico, e alcune stanze siano chiuse per riallestimento, non si può non riconoscere che al suo interno siano esposte autentiche rarità, tra cui uno Sputnik originale e dei Sojuz, gli alloggiamenti per gli astronauti di ritorno sulla terra al termine delle missioni, e poi le tute e i caschi utilizzati, e perfino un Buran in scala: ebbene sì, le tormente di neve e freddo che si abbattono sulle nostre coste adriatiche in pieno inverno, portano il nome della copia sovietica degli space shuttle della NASA. Fa venir la pelle d’oca guardare oggi quella tecnologia “primitiva” che ha consentito comunque all’uomo di arrivare nello spazio, quanta minor sicurezza ci fosse, quanto tutto fosse più sperimentale ed empirico. La sensazione di incredulità è la stessa che abbiamo provato a Tromsø, nel vedere l’attrezzatura del XIX secolo dei pionieri del Polo Nord.Ancora esaltati dai toni altisonanti della grande avventura russa nello spazio, con il naso rivolto all’insù verso il missile lanciato sopra i tetti della capitale, scorgiamo due Kolchoziani con un un fascio di grano appena mietuto che inequivocabilmente ci indicano, attraverso un solenne arco di trionfo, l’ingresso del VDNK, l’Esposizione delle Realizzazioni dell’Economia dell’URSS.
Sarebbe potuto in effetti sembrare un EXPO, con i padiglioni negli stili architettonici locali, diversi per ciascuna ex repubblica dell’URSS, ma in realtà era un’eccezionale operazione di propaganda ideologica, mirata a dimostrare la superiorità del regime comunista e dei Kolchozy sul capitalismo in materia di produzione agricola. Davanti al padiglione centrale la fontana dell’Amicizia tra i Popoli, splendida scenografia per una foto ricordo per i russi, e anche per noi.
Le 16 statue di bronzo dorato rappresentano ancora una volta le ex repubbliche sovietiche che abbigliate in costumi tradizionali portano ceste ricolme di frutta e cereali di ogni tipo. Ci concediamo un ottimo gelato, scegliendo tra le tante diverse confezioni colorate e i molteplici nomi dati alle sole due uniche varianti esistenti in questo Paese: cremino alla panna e cono alla crema monogusto.
E poi percorriamo il parco entrando e uscendo dai vari edifici, fino ad arrivare davanti al razzo posto lì per sostituire una statua di Stalin.
Appena fuori un’altra imponente scultura attira la nostra attenzione: L’Operaio e la Kolchoziana che brandiscono falce e martello. Sono figure alte oltre 20 metri, che poggiano su un basamento di oltre 100 metri di altezza, il che conferisce loro ancora maggiore imponenza, mentre il titanio di cui sono rivestite brilla riflettendo gli ultimi raggi di un sole che tramonta.
La serata volge al bello oramai, quindi ne approfittiamo, rientrando in hotel, prima di andare a cena, per andare a vedere gli Stagni del Patriarca, il laghetto da cui prendono il via le vicende de “Il Maestro e Margherita” di Bulgakov. È il tramonto proprio come nel libro, anche se non si tratta di maggio:
Nell’ora di un caldo tramonto primaverile apparvero presso il stagni Patriarsie due cittadini. Il primo – sulla quarantina, con un completo grigio estivo – era di bassa statura, scuro di capelli, ben nutrito, calvo; teneva in mano una dignitosa lobbietta, e il suo volto, rasato con cura, era adorno di un paio di occhiali smisurati con una montatura nera di corno. Il secondo – un giovanotto dalle spalle larghe, coi capelli rossicci e ciuffi disordinati e un berretto a quadri buttato sulla nuca – indossava una camicia scozzese, pantaloni bianchi spiegazzati e un paio di mocassini neri.
Ma a differenza che nel romanzo non ci sono chioschetti che vendono succo di albicocca e i giardini sono molto affollati, tutto attorno al perimetro del lago ci sono coppie che passeggiano e chiacchierano sedute sulle panchine sotto i tigli.
Tendiamo le orecchie, ma anche se parlassero di Gesù e di ateismo, non lo sapremmo comunque, perché non conosciamo il russo. Seppure siano tutti sconosciuti, non incrociamo neanche uno dall’aspetto insolito.
Anzitutto: il personaggio descritto non zoppicava da nessuna gamba, e la sua statura non era né bassa, né enorme, ma solo alta. Quanto ai denti, a sinistra aveva capsule di platino, a destra d’oro. Indossava un vestito grigio di gran prezzo, e scarpe straniere del colore del vestito. Portava un berretto grigio sulle ventitré, sotto l’ascella aveva una canna nera con un pomo nero a forma di testa di can barbone. Dimostrava una quarantina d’anni. La bocca storta. Ben rasato. Bruno. L’occhio destro nero, quello sinistro, stranamente verde. Sopracciglia nere, ma una più alta dell’altra. In poche parole, un forestiero.
M. Bulgakov – Il Maestro e Margherita
Cerchiamo il cartello “Vietato parlare con gli Sconosciuti” ma pare che sia stato rimosso. Sperando che stasera non sia stato versato altro olio di girasole sulle rotaie del tram, usciamo dalla finzione e ci avviamo sulla Malaja Bronnaja, piena zeppa di localini per la cena e per l’aperitivo, verso l’hotel.
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