Il palazzo d’estate di Pietro il Grande

Qualche giorno prima di partire per la Russia abbiamo visto in TV un interessante documentario sui Romanov e, tra le immagini che facevano da sfondo alla narrazione, siamo rimasti colpiti da quelle delle magnifiche fontane dorate del Peterhof, la dimora estiva degli zar, concepita come luogo di svago e di festa, a pochi chilometri dal centro di San Pietroburgo.
È frutto dei sogni visionari di Pietro I, della sua esterofilia e dei suoi viaggi a Versailles, ma resta una reggia autenticamente russa, per le sue dimensioni, per la megalomania del suo ideatore e gli ampliamenti voluti dai suoi successori alla corona imperiale.
Dopo un lungo tratto in metropolitana arriviamo a Petrodvorec con un efficientissimo minibus, su cui sperimentiamo per la prima volta la regola russa del “vige ciò che non è espressamente vietato” e poiché non è proibito salire a bordo privi di biglietto, all’apertura delle porte ci ritroviamo soli, davanti al conducente, con le monete in mano a chiedere il prezzo del biglietto, mentre tutti gli altri si sono già pressati nel pochissimo spazio vitale disponibile.
Scendiamo dall’autobus continuando ad osservare gli usi di questa gente, che diligentemente paga ora il dovuto per il tragitto percorso, e davanti al palazzo, nel bellissimo parco superiore, tra fontane e aiuole fiorite che disegnano un giardino classico alla francese, cerchiamo qualche indicazione sull’ingresso e la biglietteria.
La sensazione di smarrimento totale, seppure circondati da una marea di turisti, non ci abbandona mai in questo Paese.

Dopo dieci minuti trascorsi in un’inutile fila e qualche domanda di troppo riusciamo comunque ad accedere alla parte inferiore del parco e assistere all’accensione delle oltre 100 fontane della Grande Cascata.
È uno spettacolo incredibile quello che si apre davanti ai nostri occhi: nella luce tersa del nord, sotto il sole di mezzogiorno, l’oro di cui sono ricoperte le statue luccica e risplende tra bagliori e riflessi creati dall’acqua vaporizzata degli zampilli delle fontane. Al centro della vasca troneggia, in tutta la sua fisicità, un possente Sansone che spalanca le fauci di un leone, a ricordare le vittorie di Pietro il Grande sul nemico atavico, la Svezia. Intanto altra acqua sgorga dalla bocca delle rane che sembrano volersi tuffare in quest’aura brumosa creata dalla miriade di goccioline sospese nell’aria, quasi cristallizzate nel loro incessante scorrere copioso.
Decidiamo di entrare nel Gran Palazzo, dopo aver girovagato a lungo nella parte inferiore del parco, tra boschi, fontane e graziosi edifici e dopo aver osservato le foto esposte lungo la vasca principale, che ritraggono questi luoghi nel periodo della Seconda Guerra Mondiale, quando Stalin fece distruggere tutto, pur di fare dispetto a Hitler, che sognava di organizzare qui feste sontuose, se mai fosse riuscito a prendere Leningrado, chimera che baluginò davanti ai suoi occhi per tutti e 900 giorni di assedio della città.
Non sapevamo ancora che questa semplice scelta ci avrebbe proiettato in nuovi e inesplorati scenari fatti di immancabili file, di reiterate domande, di inintelligibili silenzi, ma anche di solidarietà, di scommesse e di tanta, tanta pazienza.
Scopriamo che l’accesso per i “non russi” è stato sospeso, e poiché non è facile scoprire quando sarà nuovamente aperto tentiamo il tutto per tutto incolonnandoci al termine di una lunghissima fila che sembra essere riservata ai “russi”, ma è popolata anche da italiani, spagnoli, occhi a mandorla delle diverse dimensioni, da donne con vestiti eccentrici o che indossano lunghe gonne e fazzoletti in testa, ma soprattutto da gente che come noi è semplicemente confusa e smarrita.
La coda scorre lenta e senza un ragionevole criterio, cosicché per le circa 2 ore in cui rimaniamo in attesa del nostro turno, continuiamo a interrogarci su quali siano le nostre reali possibilità di entrare in questo splendido palazzo, perché oramai le nostre aspettative sono altissime e ne deve valere la pena, senza ombra di dubbio. Ci confrontiamo con gli altri, scambiamo opinioni, mentre annunci privi di qualsiasi valenza informativa scorrono su un vecchio display a lampadine rosse. Stranamente a un certo punto si vedono le persone percorrere il serpentone davanti a noi velocemente, a gruppi da 10 o da 20 e la speranza riaffiora quando manca circa un’ora alla chiusura prevista.

Quando arriva finalmente il nostro turno afferriamo eccitati il tagliando di ingresso, corriamo dentro spintonando e, indossate perfino volentieri le soprascarpe che distribuiscono all’entrata, siamo pronti a lunghe pattinate sui parquet lucidati a nuovo delle circa 20 stanze che si succedono nel percorso di visita, oltre i 300 mq della sala da ballo, nella sala del trono, in quella da pranzo, nelle camere da letto e negli studi e studioli, finché i nostri occhi non sono satolli di cristalli, velluti, tappezzeria, di barocco, di oro e di lusso.
Il sole è ancora alto quando usciamo dal Gran Palazzo: decidiamo così di goderci ancora la luce diafana del nord che risplende sul Golfo di Finlandia ritornando in città con l’aliscafo.

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