Approfittare della poca distanza che c’è tra Milano e Venezia è d’obbligo in occasione di eventi quali la Biennale di Arte. Così, muniti di un piccolo bagaglio e una macchina fotografica, andiamo a scoprire le novità custodite nei padiglioni dei Giardini e nelle ampie rimesse dell’Arsenale.
È una giornata meravigliosa: il cielo sopra la laguna è azzurro, senza nuvole; solo la luna a sorvegliare i turisti tra campi e calli, e i vaporetti tra i canali.
Quando si entra ai Giardini è quasi naturale fare un giro in senso orario, partendo dal padiglione della Spagna prima e del Belgio poi. In quest’ultimo, il cui titolo è Mondo Cane, sembra siano stati riscoperti i diorami: in scala 1 a 1 figure umane semoventi e inquietanti che danno l’impressione di aver voluto ricreare con uno humor spietato un grande “presepe” dell’assurdo. È anche l’allestimento che ha ricevuto dalla giuria una menzione speciale per la sua visione alternativa dei rapporti sociali in Europa, resa attraverso la molteplicità di fantocci ispirati a stereotipi di folklore, ciascuno nel suo tempo e con la sua storia.
Comincia così il nostro girovagare di 2 giorni da una sala all’altra, tra opere di immediata comprensione e altre, il cui messaggio criptico resta confinato nell’istante in cui i nostri occhi le scorgono.
Nel padiglione della Serbia, tra ammassi di creta antropomorfi, campeggiano inutili tele con cani; ripensiamo a Marina Abramovic che oltre 20 anni prima, esclusa dalla Biennale dal Ministero della Cultura del Montenegro, negli umidi sotterranei del padiglione italiano, vinceva il Leone d’Oro con Balkan Baroque, una performance durante la quale ripuliva ossa di bovino da carne e cartilagini residue, in un rituale di purificazione di sé stessa dagli orrori della guerra dei Balcani.
Fragili ragnatele tessute da diverse colonie di ragni e immagini dai forti contrasti che urlano quasi il nostro nome richiamandoci dal fondo della sala.
E poi la scoperta di storie vere e affascinanti quali quella del primo e unico astronauta siriano, Muhammad Faris, che aveva partecipato alla fine degli anni ’80 a una missione sulla MIR, la stazione spaziale sovietica, oggi anche lui profugo, fuggito dal suo Paese, per essersi rifiutato di bombardare i suoi connazionali già martoriati dalla guerra. L’idea presentata in Biennale è che ci sia spazio per tutti i profughi del mondo su Marte e che possa essere proprio Faris a portarceli.
Tra le sale d’armi e le artiglierie dell’Arsenale un vero e proprio market in cui salsicce e salumi sono in cemento e pietra naturale e frutta e verdura sono composte da grosse tessere di mosaico.
Teste di animali in varie composizioni ed enormi budelli sospesi su grigi crateri che destabilizzano la distinzione tra organico e sintetico, tra scienza e finzione, tra umano e non umano.
Tantissime le composizioni verticali, realizzate quasi tutte con materiali di recupero, come quella di un artista sudafricano, composta di innumerevoli porticine di casette per uccelli tenute assieme da lacci di scarpe che rievoca immediatamente una grande gabbia e attraverso essa la segregazione e l’apartheid.
E pareti di conchiglie in terra, argilla e cuoio che ci proiettano in un mondo immaginario eppure così familiare e rassicurante.
Innumerevoli i video, uno in particolare ci colpisce, perché creato anch’esso come composizione di materiale preesistente, montando assieme diverse scene già registrate per dar vita a nuove narrazioni: l’onnipresente tentativo di creare qualcosa di nuovo da oggetti del mondo circostante tagliandolo, manipolandolo, torcendolo e trasformandolo.
Il padiglione Venezia dà vita a una collaborazione tra diversi artisti che mettono in comune le loro esperienze personali vissute in questa splendida città, tra arte, storia e mitologia. La gran parte dello spazio è occupata da una struttura gonfiabile che si attraversa come una scatola magica, camminando scalzi sull’acqua tra bricole e nebbia, per sperimentare il reale tessuto urbano di Venezia.Oltre corridoi in piena luce, riproduzioni luminose su buie pareti e giochi di ombre su installazioni di ceramiche, come resti cadenti di reliquie storiche, appartenenti alle mitologie taoiste e popolari. E poi negli spazi esterni, tra le gaggiandre dell’Arsenale, lì dove un tempo venivano alloggiate le galere a remi, un’altra opera dell’artista argentino Tomás Saraceno, che esplora anch’essa, assieme alle ragnatele, modi sostenibili e collettivi di abitare l’ambiente, un messaggio oramai necessario in un’epoca di tumulti ecologici, in cui affidiamo a un’adolescente il compito di pronunciare all’ONU il discorso più duro, lucido e sensazionalistico che sia mai stato pronunciato sull’imminente disastro del nostro pianeta.Impossibile non soffermarsi davanti Barca Nostra, l’opera che commemora il naufragio più tragico della storia moderna del Mediterraneo, avvenuto a poche centinaia di chilometri dalle coste di Lampedusa nell’aprile del 2015, e in cui morirono circa 1.000 migranti.
E in fondo all’Arsenale le braccia di Lorenzo Quinn che si toccano, si stringono, si intrecciano in un palese simbolo di unione e riavvicinamento.Oltre il negozio di “occhi di strega”, in un giardino pubblico, lungo la Riva degli Schiavoni scorgiamo un divertente Moscream, che inevitabilmente ci riporta alle 2 settimane trascorse in Russia, e la nostalgia di quell’istante si colora dei toni di un magnifico tramonto oltre la Giudecca.
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