Due giorni di pioggia possono bastare

Visto che piove e pioverà ancora per un altro giorno pensiamo sia giunto il momento di non indugiare oltre, e affrontare gli splendidi musei che questa città offre.

In fondo andare al Prado è un po’ come ripercorrere la storia della Spagna e delle sue dinastie, da quella castigliana a quella borbonica, passando per quella asburgica, inseguendo il gusto e i capricci dei suoi re, influenti mecenati dell’epoca moderna. Spesso le inclinazioni erano condizionate dalla convenienza e dal calcolo politico, a volte l’occasione di acquistare all’asta beni di un re inglese decapitato si presentava ghiotta, ma la qualità della collezioni presenti in questo museo resta comunque ancora oggi indiscussa. D’altronde l’idea di farne una galleria d’arte aperta al pubblico aveva animato precocemente i monarchi spagnoli, fin dai tempi di Filippo II d’Asburgo, nel XVI secolo.

Noi siamo attratti per lo più da Velasquez: quanto di più spagnolo ci possa essere in questo museo. Il maestro della corte di Filippo IV d’Asburo è per noi una scoperta relativamente recente: sono i frequenti richiami alle sue opere fatte da artisti moderni e contemporanei a rendercelo interessante e perché no, imprescindibile.
Velasquez è, se possibile, in un tentativo di estrema semplificazione, il precursore dell’istantanea, della fotografia, quella di strada, in cui i soggetti non sono mai in posa. Las Meniñas (La famiglia di Filippo IV) ne è un esempio lampante. Tutto è in movimento, dal nano che stuzzica il cane in primo piano a sinistra, al maresciallo di palazzo che si affaccia sulla porta aperta sullo sfondo, agli sguardi sfuggenti e distorti dei personaggi ritratti, quegli stessi sguardi che Picasso si impegnerà a riprodurre nella frammentazione delle sue donne cubiste.
Anche negli altri quadri presenti in questa splendida galleria le figure ritratte da Velasquez sembrano colte in un attimo di caducità, intente a fare qualcosa, con l’espressione del viso fissa in un istante, che dura oramai da secoli e svela in maniera vivida e veritiera sensazioni comuni in cui ci riconosciamo.

Forse è questa la sua grandezza, o forse è questo ciò che a noi resta impresso: loro sono lì immobili e immortali, mentre i visitatori del museo scorrono loro davanti da secoli, mentre fuori si succedono guerre ed epidemie, sempre lì sorpresi in gesti semplici e universali.

Goya, altro grande artista molto presente in questo museo, ha la capacità di sorprenderci tutte le volte. Oltre la stanza in cui sono conservate le opere destinate alla sua “Quinta del Sordo” e quelle notissime riprese in tutti i libri di storia dell’arte, siamo rimasti per un po’ a guardare il grande dipinto de La famiglia di Carlo IV. Sono passati oltre 150 anni dalla famiglia ritratta da Velasquez: è cambiata la casa reale sul trono di Spagna, e l’impero, segnato da decadenza morale e politica, è oramai in piena crisi.

La composizione sembra decisamente più classica, ma a ben guardare, se si escludono gli abiti e i gioielli che i personaggi raffigurati indossano, quelli ritratti sembrano beffardamente persone comuni, e i loro volti sono un catalogo di espressioni e di caratteri descritti con uno spirito di osservazione niente affatto comune, vivace e impietoso. Ci è piaciuta tantissimo la definizione che di questo quadro dà lo scrittore francese Théophile Gautier: “l’immagine del panettiere all’angolo e di sua moglie dopo che hanno vinto la lotteria”.
Chiarissimo è il richiamo che Goya fa a Las Meniñas, ponendosi anche lui sullo sfondo a sinistra a guardare lo spettatore, davanti a una tela. Un lampo di genio che ci coglie improvvisamente innamorati di questo quadro.
Il resto del museo scorre tra conferme e nuove scoperte: Caravaggio, Rubens, el Greco, Tintoretto reclamano tutti la loro attenzione ed è molto piacevole rimanere qui, tra queste sale mentre su Madrid piove a dirotto.
Abbiamo quindi tutto il tempo anche per soffermarci davanti La maddalena Ventura, una donna barbuta ante litteram, un dipinto insolito ma comunque una testimonianza del fatto che i freaks siano sempre esistiti, e che oggi possiamo solo fingere di sorprenderci davanti alle immagini di Diane Arbus.

E poi l’arrivo dei primi personaggi 3D da presepe, su influenza degli artisti napoletani alla corte dei Borboni. È impossibile non immaginare questi due popolani in una Betlemme settecentesca, magari nei panni di una pastorella lei e in quelli di un celebre pizzaiolo lui.

Sabato è il turno del Reina Sofia, che custodisce, tra i tanti capolavori di arte contemporanea, Il Guernica di Picasso. In realtà è anche questo un museo ricolmo di opere d’arte soprattutto contemporanea, la Louise Bourgeois per esempio compare all’improvviso con uno dei suoi ragni, non tra i più monumentali, visto che stavolta deve riuscire a stare dentro una stanza. Ma anche Cy Towmbly, tela bianca su parete ancor più bianca, quasi a mimetizzarsi, e poi Richard Serra, nel corridoio che corre lungo il cortile interno del palazzo. Inutile dire che sono presenti anche molti Mirò e Dalì, che qui la fan da padroni.

Tutto il quarto piano è dedicato alla storia, la vita, l’arte, e l’architettura della Spagna Franchista. Interesantissimo, ma ci mancano delle solide basi storiche per apprezzarlo fino in fondo.

Alle 13.00 la giornata si prospetta ancora lunga, e la pioggia non accenna a smettere di cadere quindi, dopo un pranzo veloce, ci immergiamo nel Thyssen-Bornemisza, la collezione che il barone filantropo e mecenate volle rendere accessibile a tutti, dedicandovi gran parte della sua vita.

È anche questo uno spazio enorme, non per nulla è la più importante collezione privata europea, nonché una della maggiori al mondo, nata dalla congiuntura particolarmente favorevole che a inizio Novecento vedeva da una parte l’onda lunga della Soppressioni Napoleoniche, che comportava la messa in vendita di un enorme numero di opere e dall’altra il boom industriale ed economico che consentiva l’accumulo di vere e proprie fortune, da poter spendere in acquisti d’arte, intento particolarmente in voga tra i nuovi aristocratici, di ascendenza borghese.
Quella del barone Hans Heinrich Thyssen-Bornenisza è l’affascinante storia di molteplici collezionisti americani: Paul Getty, J.P. Morgan, Stewart Gardner, Lehman, Rockefeller, Solomon e Peggy Guggenheim solo per citarne qualcuno.
Molto presenti sono in questo caso le opere di artisti tedeschi dal Trecento al Cinquecento, tra cui spicca il Ritratto di Enrico VIII di Hans Holbein, presente in tutti i libri di storia. Pare che questo ritrattista riproducesse con esattezza fotografica l’esteriorità dei suoi modelli. La tavola è molto piccola, appena 28×20 cm, e ci si deve avvicinare per vedere i tratti massicci del viso del re, i suoi occhi distanti, la bocca piccola, il naso prominente, e nel momento in cui percepiamo la sua impassibilità e la sua forza, la mente corre veloce alla serie TV, “I Tudors”, in cui il monarca inglese è interpretanto da un tormentato Jonathan Rhys Meyers, modello, oltre che affascinante attore.
Insomma proprio tutta un’altra storia.

Buona parte della collezione consta di interessanti opere impressioniste, ma anche espressioniste e post impressioniste, iperealiste, surrealiste. Ci sofferiamo su Lucien Frued e Francis Bacon, ma anche Hopper e Picasso, Dalì, Rothko, Grosz, in ordine parso. Il fotorealisto di Richard Estes ci rapisce oggi ancora, come la prima volta. Un’indigestione di arte, di storia, di colori.

Restiamo affascinati da un artista islandese, Ragnar Kjartansson, presente con una mostra temporanea, che fonde assieme musica e video in una forma personalissima di arte moderna. Le sue opere sono ambientate in una fattoria sul fiume Hudson e nelle Montagne Rocciose e le immagini sono accompagnate da blues e jazz. 

La sera stremati andiamo a mangiare in un mercato coperto nei presi dell’hotel. Finalmente non piove più e ci concediamo ancora due passi nel quartiere, a osservare la gente che affolla i bar di tapas e i ristoranti dei dintorni

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