Il giorno dopo, la pioggia non accenna a smettere. Abbiamo davanti circa 360 chilometri fino a Eskifjörður, con tappe intermedie alla ricerca dell’avifauna dell’isola: le guide turistiche garantiscono incontri con gabbiani tridattili, fulmari, pulcinella di mare e perfino edredoni. Sono per noi nomi fin troppo esotici per non rimanerne ammaliati al solo sentirli elencare, e per buon auspicio, appendiamo una piccola mascotte allo specchietto retrovisore dell’auto.Lungo la strada, che in questa zona sembra spesso sospesa tra la terra e l’acqua, ci fermiamo per scattare qualche fotografia, distendere le gambe intorpidite e far sgranchire le ali del drone. Qualcuno ne approfitta per fumare e qualcun altro per irrorare di ammoniaca muschi e licheni.Quando il cielo si apre, in improvvise schiarite, rivela panorami incantevoli in cui le montagne, ora più alte e possenti, sovrastano spiagge nere di lava ricoperte di tappeti di alghe in cui sono rimasti invischiati gusci di mitili e granchi. La felicità che sentiamo sta probabilmente proprio in questo, nell’essere talmente tanto immersi nella bellezza di questo mondo remoto, da non aver il tempo di chiedersi se si è veramente felici. È un sorriso spontaneo mentre la mente si svuota, è un respiro profondo mentre il sangue pulsa più forte nelle vene.Inutile dire che il brutto tempo rende impossibile anche solo avvistare gli uccelli che stiamo cercando. In compenso incontriamo tantissime pecore al pascolo. Nel vederle libere di girovagare per la brughiera, tra crepacci e contrafforti, è impossibile non pensare a quando, tra qualche mese, con l’arrivo dell’inverno, dovranno essere cercate, raccolte e ricondotte nelle stalle, al riparo dal freddo.La mente corre al breve, eppure appassionante, racconto di Gunnarsson, Il pastore d’Islanda, interamente incentrato sul momento in cui le ultime pecore, quelle date per disperse, perché sfuggite ai raduni autunnali delle greggi, vengono ritrovate e portate in salvo. Non è soltanto un racconto d’avventura ambientato nel gelido inverno islandese, è soprattutto un’immensa storia di amicizia, di fiducia, di aiuto reciproco tra il pastore Benedikt, il cane Leó e il montone Roccia. La natura e il tempo, sotto forma di neve, tempesta, montagne sono loro nemici, ma allo stesso tempo sono fonte di quell’amore profondo che solo nei confronti di luoghi come l’Islanda si può provare: ha a che fare con la solitudine estrema e la paura.Ma l’aneddoto che più rapisce i viaggiatori, costretti in auto ad ascoltare tutte le storie che sono state raccolte nelle ultime settimane di studio, è quello che vede uno scaltro e opportunista Walt Disney chiedere allo scrittore islandese di essere ricompensato per l’intenzione di trarne un film di animazione, che, a suo dire, sarebbe potuto diventare un successo al pari di Bambi e Biancaneve. Inutile dire che alla fine Gunnarsson non accettò di pagare il noto animatore e imprenditore statunitense, e il film non fu mai realizzato.
Ma ancor più ammaliante è l’epilogo di questa vicenda e il fatto che Benedikt, il suo coraggio e il suo tormento esistenziale, così complesso eppure così moderno, riuscirono comunque ad arrivare oltre oceano e costituirono il soggetto su cui Hemingway modellò il suo Santiago ne Il vecchio e il mare.La discesa lungo i fiordi orientali e i suoi pittoreschi villaggi di pescatori è resa impossibile dalle condizioni meteo. La strada sterrata, erta e tortuosa, che conduce a Mjóifjörður, il fiordo più bello d’Islanda, e al relitto di un peschereccio arenato sulla sua spiaggia infestato di edredoni, è resa impraticabile da fitti banchi di nebbia che risalgono la brughiera direttamente dall’oceano. Siamo costretti a fare inversione e tornare mestamente sui nostri passi.
Il tempo di voltarci indietro, verso la strada appena abbandonata, e la nebbia rivela verdi montagne solcate da silenziosi e inattesi corsi d’acqua. Considerata la pioggia, che non accenna a voler smettere di venir giù copiosa, l’opzione migliore sembra quella di provare ad arrivare in tempo per cena a Eskifjörður, e prenotare un tavolo al Randulffs. Si tratta di un ristorante ricavato da una rimessa di barche, che serve i migliori piatti di pesce della tradizione islandese, compreso il famigerato squalo putrefatto, accompagnato da un bicchierino di brennivín. Ma non abbiamo comunque il coraggio di provarlo, preferendo le più tradizionali zuppe di pesce e il baccalà. Non abbiamo cuore di mangiare neanche la carne di puffin fritta 2 volte e mimetizzata tra carote e ribes, non ancora, non oggi, che non siamo riusciti ad avvistarne neanche uno.La mattina dopo il cielo, nelle sue 1000 sfumature di grigio, sembra voler replicare le scenografie della giornata precedente. Eskifjörður ha ancora da offrirci la tomba dell’ultimo vichingo e poi null’altro, considerato che la vita e le attività non si ridesteranno prima delle 10.00. Anche il suo stabilimento di lavorazione e di congelamento del pesce, che è proprio all’ingresso del villaggio è ancora chiuso, e i suoi pescherecci giacciono sonnacchiosi lungo i moli.La zona che percorriamo è quella oggetto da circa trent’anni di programmi di rimboschimento, al fine di evitare l’erosione del suolo e, nel volerne fare la foresta più grande dell’isola, catturare il carbonio emesso nell’atmosfera.
Nonostante il brutto tempo, non rinunciamo comunque ad andare a vedere la cascata più grande d’Europa, la più impressionante e possente d’Islanda. Le dimensioni e la portata della Dettifoss hanno dell’incredibile. Restiamo a guardarla a bocca aperta, con timore perfino, mentre il suo boato rimbomba nelle nostre teste.È estremamente emozionante pensare a cosa sia in grado di generare la natura a seguito di un terremoto, deviando il corso di un fiume. È l’acqua del Vatnajökull, quella che scorre davanti ai nostri occhi, il ghiacciaio più grande esistente al mondo, ed è impossibile, di fronte a questo spettacolo, con il cuore stretto in una morsa di consapevole caducità, e scongiurando che tutto ciò un giorno possa smettere di esistere, rimanere insensibili al problema del cambiamento climatico in atto, e non sperare che esista ancora una via d’uscita. Percorriamo il vasto canyon che porta a Sellfoss, molto più piccola, ma incredibilmente affascinante, con i suoi molteplici salti disposti tutti attorno a una vasta tribuna. Il cielo è ancora grigio e mesti sono i nostri pensieri allontanandoci lungo quel chilometro che ci separa dal posto in cui abbiamo lasciato l’auto.Ripartiamo alla volta di Ásbyrgi, un’ampia depressione del suolo circondata da pareti di roccia quasi verticali alte anche un centinaio di metri. Il termine significa letteralmente “rifugio degli dei Asi”, poiché sembra fosse il posto in cui gli antichi dei si nascosero, una volta traditi dal popolo islandese convertitosi al cristianesimo e liberatosi dei vecchi simulacri gettati nella cascata di Goðafoss, non molto distante da qui. I geologi spiegano la formazione di questo enorme canyon come frutto di uno jökulhlaup, un’inondazione conseguente a un’eruzione subglaciale, causato dall’esplosione di un cratere sotto il Vatnajökull. Sono fenomeni difficili da immaginare, e la leggenda che parla dell’impronta di uno zoccolo di Sleipnir, il cavallo a 8 zampe di Odino, dio supremo del pantheon norreno, che sfrecciava nel cielo illuminato da una splendida aurora, nella sua estrema semplicità immaginifica sembra quasi accettabile, decisamente più accessibile.La sera raggiungiamo Húsavík, una graziosa cittadina dedita alla pesca e al turismo, i cui edifici dai colori vivaci, dominati da una splendida chiesetta in legno, si rispecchiano sul mare, nella luce dolce di un lungo tramonto boreale. A cena, riflettendo sui 3 giorni appena trascorsi tra pioggia, vento e freddo gelido cominciamo a pensare che forse il piccolo puffin, che ondeggia appeso allo specchietto dell’auto, non abbia poi portato così tanta fortuna, visto che da quando è comparso siamo stati perseguitati dalle sfighe metereologiche e non siamo riusciti ad avvistare neanche uno degli uccelli che popolano l’isola. Meditiamo di farlo fuori e riporlo in qualche cassetto ben chiuso. Il nuovo proposito sembra sia bastato a far tornare il sereno sulla Skjálfandi, la “baia dei tremori”. Abbiamo ancora tutto il tempo di visitare il museo delle balene, attratti dalla possibilità di vedere un rarissimo scheletro di balenottera azzurra, il più grande mammifero vivente del nostro pianeta, in tutta la sua grandezza e interamente dotato di fanoni. Gli esemplari esposti sono scheletri di cetacei, morti per cause naturali, e ritrovati sulle coste dell’Islanda, tutti eccetto il narvalo, dono dei cacciatori inuit. Le balene spiaggiate di ogni specie rappresentavano un’autentica benedizione. Perché con la carne di balena si potevano sfamare gli abitanti dei villaggi anche per un inverno intero, e i capodogli poi fornivano anche lo spermaceti, un olio purissimo considerato molto prezioso, perché utilizzato per la lubrificazione di macchinari di precisione. Proprio riferita alle balene spiaggiate esiste, in islandese, un termine specifico hvalreki, parola usata ancora oggi con l’accezione di “colpo di fortuna”, un esempio lampante del miracolo di questa lingua, rimasta quasi immutata nei secoli, un fossile vivente e allo stesso tempo un vero e proprio mostro di resilienza, che nella sua forma originaria si è espressa nelle saghe norrene, ammaliando perfino un raffinato filologo quale Tolkien e oggi, seppur non utilizzata da Siri o Alexa, resiste preservando se stessa, e nel coniare nuovi vocaboli si adatta alla contemporaneità.
Una lingua caratterizzata da un’infinita ricchezza lessicale, che sebbene sia parlata da non più di 350 mila persone, è viva e vegeta e riesce a resistere a tutto, ai gelidi inverni, ai terremoti, alle eruzioni vulcaniche, perfino alle provocazioni di lingue più prestigiose e decisamente più semplici.
Vabbè se non avete provato lo squalo putrefatto non siete veramente andati in Islanda.
Un’ottima scusa per tornarci
Io ho visto l’ultimo puffin in fuga dal traghetto… o forse era brennivin.. 🙂