La notte sullo Skagafjördur è splendida, e ottimisti speriamo che la dama danzante si vesta di verde per una serata di gala. Proviamo ad aspettarla, intrattenendoci con un gioco da tavolo, abbastanza semplice e veloce.Intanto un’app di monitoraggio dell’aurora, installata per l’occasione, ci lascia poche speranze, dandoci una percentuale di probabilità molto bassa e così, esausti preferiamo il certo per l’incerto, e puntiamo tutto sui panorami diurni dei fiordi occidentali dell’indomani.
La mattina di buonora armati di cellulari, macchina fotografica e drone partiamo alla caccia della BIG PHOTO OPPORTUNITY, perché le condizioni di luce sono ottimali, come solo a queste latitudini è possibile.
È la zona in cui il numero di cavalli supera quello delle persone che li allevano, ed è abbastanza evidente. Ai bordi della strada ci imbattiamo in diversi recinti che ospitano questi prodi quadrupedi, che hanno saputo adattarsi negli ultimi mille anni ai gelidi inverni islandesi, sviluppando una resistenza straordinaria e mascherandola dietro un garrese più basso e un manto più folto. Sembrano rilassati ma fieri, quasi consapevoli che la predisposizione alla selezione genetica non può che comportare una capacità di attaccarsi alla vita con tutta la forza e la volontà di cui si è capaci. Il vento del nord soffia ancora forte stamattina, ma loro si pongono l’uno dietro all’altro, a scalare, fornendo l’un all’altro reciproco riparo.
Proseguendo lungo la costa ovest del fiordo incrociamo Grettislaug, una pozza tonda la cui acqua raggiunge temperature di circa 40° C, che secondo quanto narrato nella Saga di Grettir, fu il luogo in cui fece il bagno Grettir il Forte, un fuorilegge abitante della vicina isola di Drangey, considerato un guerriero formidabile, in grado di combattere contro i troll e i non-morti. Un anti-eroe: coraggioso, ma irascibile, possente ma quanto a capacità virili, poco dotato.
C’è un anziano signore oggi, che gestisce la piccola piscina, ma il suo modo di approcciarsi non è rincuorante. Che sia un lontano discendente del bandito?
Non abbiamo il costume, ma soprattutto la totale mancanza di una struttura accogliente e confortevole per il post bagno lascia che affiori tutto il nostro lato freddoloso da meridionali, abituati a tutt’altre temperature.
Ci sono paesaggi solitari e disabitati, brughiere sassose e prati costellati di piccoli laghi, scogli erosi dal mare che sembrano animali pietrificati, spiagge dorate popolate di foche che ci attendono, non possiamo farli aspettare.
Riprendiamo la Route 1 a Blönduós, ma concentrati come siamo sulle vedute che scorrono oltre i finestrini dell’auto, non facciamo caso al fatto che questo sia anche il posto in cui è avvenuta, nel 1830, l’ultima esecuzione di pena capitale. Una storia straziante su cui è stato scritto un romanzo e da cui Luca Guadagnino sta traendo un film, con Jennifer Lawrence nei panni della protagonista. Magari quando finalmente sarà nelle sale cinematografiche gli dedicheremo la giusta attenzione.
Poi sul lato orientale della penisola di Vatnsnes, affascinati da panorami superbi e selvaggi dimentichiamo di cercare le foche e ci dirigiamo direttamente verso Hvítserkur, un’impressionante formazione rocciosa alta 15 metri, ben visibile dalla costa. Questo spettacolare faraglione tormentato dall’oceano sembra un terribile mostro marino pietrificato, ma secondo la tradizione popolare si tratta di un troll sorpreso dalle luci dell’alba, mentre andava a distruggere le campane di un convento vicino, il cui suono lo esasperava da giorni. C’è una chiesa nei paraggi, ma non ci soffermiamo a controllare che ci siano ancora le sue campane, decidiamo piuttosto di proseguire. Ci lasciamo alle spalle la Þjóðvegur 1, che non si inoltra sui fiordi occidentali, e passiamo da Hólmavík, porta di accesso alle terre del nord ovest, per correre a prender possesso della nostra stanza a Drangsnes, e cenare sul punto più estremo dello Steingrímsfjörður da dove godiamo ancora una volta dello spettacolo delle balene che nuotano a poca distanza dalla costa. L’entusiasmo è un po’ scemato rispetto a quello di 2 giorni prima, anche perché il nostro piatto a base di carne di pecora catalizza tutto il nostro interesse.
Il giorno dopo andiamo a riprendere a Hólmavik la strada che corre lungo la costa. Procediamo in un continuo zig zag lungo i fiordi che tagliano questa penisola in profondità, tra montagne scavate dai ghiacciai e baie desolate, in cui si intravedono piccolissimi villaggi sullo sfondo delle acque gelide dello stretto di Danimarca. È la zona vulcanica meno attiva d’Islanda, perché la più antica, ma la sua bellezza selvaggia richiede spesso una sosta, per riprendere fiato. Davanti a tale incanto la felicità è effimera, perché noi siamo destinati ad andare, a proseguire il nostro viaggio, mentre qui la bellezza è l’eterno presente.
Negli anfratti in cui si insinua il mare vediamo tantissimi tronchi, e poiché non ci sono alberi su quest’isola intuiamo che non possono essere altro che pini e larici siberiani, consegnati all’Artico dalle correnti. Sono anch’essi tristi testimoni della febbre polare e dello scioglimento dei ghiacciai, che se da una parte consentono a queste nuove risorse di raggiungere un’area non molto prospera, dedita per lo più alla pesca e alla pastorizia, dall’altra alimentano la fame di nuove rotte commerciali, più brevi e redditizie.
Ma oggi la nostra strada è prevalentemente di montagna; serpeggia passando tra stretti valichi e improvvise valli di un colore verde intenso. All’ora di pranzo riusciamo ad arrivare a Ísafjörður, la più grande e popolosa cittadina dei fiordi occidentali. Non ci sono posti di particolare interesse turistico, ma è la sua atmosfera rilassata, i suoi accoglienti bistrot, i suoi graziosi caffè, le sue case di legno dipinte con colori brillanti a farne un luogo sorprendente e gradevole, dopo tanto girovagare nel nulla. Fanno da sfondo imponenti montagne, che scendono ripide nel mare e che durante i mesi invernali, i più bui dell’anno, impediscono al sole troppo basso sull’orizzonte, di illuminare direttamente la cittadina. In un locale caldo e invitante mangiamo un’ottima zuppa di pesce, pescando direttamente dalla pentola che ci portano in tavola. Ci serviamo finché non ne vediamo il fondo, sazi e appagati. E poi un dolce accompagnato da una tazza di caffè caldo, in un panificio-pasticceria in cui il bancone è ricolmo di torte e biscotti tipici islandesi di ogni genere.
Riprendiamo la strada lasciandoci alle spalle la vista spettacolare sull’Ísafjarðardjúp: fiordi a perdita d’occhio, disabitati e impervi. Lo sguardo vaga su questi spazi infiniti in cui le montagne, appena macchiate di bianco in cima, per i ghiacci che resistono al disgelo, sono talmente scure da sembrare blu. Ed eccolo il colore di fondo della bandiera islandese, quello su cui si distende la croce bianca per il ghiaccio e rossa per la lava. È il blu, che a differenza di quanto si potrebbe immaginare, non identifica né il cielo, né i corsi d’acqua, né il mare, ma la particolare sfumatura di colore che assumono le montagne quando le si osserva al di qua dei fiordi.
Prima di raggiungere l’hotel abbiamo ancora tempo per andare a vedere la Dynjandi, la tonante, una spettacolare cascata triangolare. È incantevole in sé, non solo per i suoi alti gradoni, ben 5 sono infatti i salti, ma anche perché non sbuca all’improvviso dietro una curva da un crepaccio, ma la si avvista da chilometri di distanza come un’enorme lingua bianca di acqua che scivola su un anfiteatro scuro di rocce, e nel mettere lentamente a fuoco ci si interroga sulla sua reale natura, sulla sua dimensione, perfino sul suo rumore. La sua bellezza è di quelle cose che si apprezzano gradualmente, un po’ alla volta.
La sera facciamo sosta a Þingeyri, un piccolo villaggio che è anche un’antica stazione commerciale. Il porto è sonnacchioso, probabilmente i pescherecci sono tutti a lavoro nei fiordi e il miglior caffè di questo posto ai confini del mondo è chiuso. Dobbiamo rinunciare ai suoi legendari waffle con marmellata di rabarbaro e panna, mentre il ristorante dell’hotel emette forti odori di pollo tandoori. Non abbiamo voglia di cibi speziati e cerchiamo rifugio nell’unico posto aperto: una stazione di servizio della N1. Mentre aspettiamo che siano pronti i nostri hamburger, oltre le vetrate osserviamo un altro di questi tramonti impossibili, in cui la luce del giorno trionfa mite, dolce, di una magia che non smette di ammaliarci.
Il giorno dopo, quando ci rimettiamo in moto il sole è già alto e preannuncia una giornata splendida. Ottimisti riprendiamo la corsa verso sud ovest. Il nostro girovagare sui fiordi è un viaggio sotto cieli sempre diversi, accanto a nuvole che appaiono e poi immediatamente scompaiono, sospinte da rapide folate di vento, in una luce piena eppure mai violenta, mentre si dispiegano davanti ai nostri occhi scenari a cui ci abbandoniamo senza alcuna difesa.
Lungo la costa, lì dove il muschio e i licheni arrivano fino in acqua, ci fermiamo ad osservare l’antico rifugio di un altro fuorilegge, Gisli, la cui storia di tormento e passione è narrata nella saga omonima.
Poi la statale 60 risale tra i monti fino a circa 700 metri e improvvisamente ridiscende sulle rive dell’Arnarfjörður, dove piccoli villaggi si rivelano ai nostri occhi: poco più che chiesette dai tetti rossi su incantevoli spiagge dorate. Storditi da tanta bellezza, continuiamo la nostra esplorazione e sull’imboccatura del Patreksfjörður troviamo il relitto di una nave baleniera, la Garðar BA 64, interamente in acciaio, varata in Norvegia nel 1912 e utilizzata in Islanda fino al 1981, quando la caccia alle balene fu drasticamente ridotta. Il fascino è tutto nella ruggine che sopravvive alle intemperie e che, nei suoi caldi colori che degradano dall’arancio al marrone, si stagliano contro un cielo che più azzurro non avrebbe potuto essere.È il momento giusto per lanciare il drone in un accertamento aereo. Dopo un facile decollo, sorvolare la nave sembra un gioco da ragazzi fino a quando un forte tonfo precede improvviso il cessare del ronzio. Un albero immobile ha disarcionato lo spione volante e lo ha costretto alla resa. Buio sul pannello di guida e silenzio. Poi, fortunatamente dopo qualche attimo di terrore, torna a volare e rientra incerto e acciaccato al cospetto del suo pilota, ancor più tremante e smarrito, che quasi non crede ai suoi occhi e al suo colpo di fortuna insperata.Un altro tentativo sarebbe un atto di sfida oltre che di presunzione, quindi riposto il drone nella sua custodia ripartiamo alla volta di Breiðavík.
Ripensare alla scena e ripercorrere mentalmente l’accaduto ci fa sorridere, poi quando anche il pilota ha riacquistato lucidità e distacco, cominciamo a riderne forte, perché la gioia è sempre nella condivisione, nel viverla assieme questa felicità, pura e semplice, che si fa contagiosa.
La strada passa da Hnjótur, un minuscolo abitato che domina dall’alto di una collina la vista sul fiordo sottostante.
Un altro relitto, questa volta di un aereo americano, ci costringe a una nuova sosta. Si tratta di un DC3 che serviva la base NATO di Keflavík e nell’hangar appena dietro c’è perfino un biplano russo, atterrato in Islanda perché rimasto senza carburante.Sbirciamo gli oggetti esposti nel museo etnografico dall’annesso caffè, tra i tavolini ricoperti di centrini polverosi, e l’accozzaglia di attrezzature marittime che intravediamo non ci attrae tanto da prolungare ulteriormente la nostra pausa.
Breiðavík ci appare da lontano, con le sue spiagge bianche che si protendono nelle acque azzurre dell’oceano. Se nel sud dell’isola le spiagge sono nere di lava, le coste dei fiordi occidentali sono caratterizzate da fine sabbia dorata; sembrano caraibiche ed estranee a questo territorio, e in fondo un po’ lo so anche, perché è stata la corrente del Golfo a trasportare questa sabbia da molto lontano. Le magnifiche sfumature differiscono con la luce che muta di intensità con il passaggio di banchi di nuvole, e vanno dal giallo al bianco, e poi al rosso e all’arancione. Restiamo incantati come davanti a qualcosa di inatteso che svela improvvisamente tutto il suo potere immaginifico. Oltre, lungo la statale si sale di nuovo in cima a un altopiano per poi ridiscendere verso la costa e le splendide scogliere di Látrabjarg. È il punto più occidentale d’Europa, se si escludono le Azzorre. Il vento è fortissimo e carico di acqua dell’oceano. Stormi di uccelli strillano, mentre ad ali spiegate restano sospesi, immobili, tra cielo a terra a poca distanza dalla costa. Controllano i loro nidi abbarbicati alle rocce, e nello stesso tempo scrutano il mare alla ricerca di cibo. Ci sembrano quasi tutti gabbiani. Non c’è traccia dei simpatici pulcinella di mare, dal becco triangolare multicolor che volano in modo goffo a causa delle corte ali che li costringono a 400 battiti al minuto per rimanere in quota.
Riprendiamo quindi la strada. Abbiamo il traghetto a Brjánslækur per Stykkishólmur nel tardo pomeriggio. È un attimo e ci ritroviamo bloccati da una splendida mandria di un centinaio di cavalli islandesi, che radunati da contadini e allevatori, sono probabilmente guidati verso i grandi recinti dai quali ciascuno dei proprietari riconoscerà i propri animali. Sembra quasi di assistere alla fase iniziale del tradizionale réttir, che solitamente riguarda le pecore. Guardiamo i cavalli che ci scorrono affianco divertendoci nel riconoscere quali vanno al tölt, l’innata andatura dei cavalli di razza islandese, il passo composto da 4 tempi, veloce ed elegante.
Ci accorgiamo di essere in anticipo al molo di Brjánslækur per l’imbarco sul traghetto, quindi ci concediamo, in un grazioso caffè con vista sui fiordi, una fetta di carrot cake, un dolce semplice e gustoso, che solitamente viene farcito di skyr e mirtilli, e per il quale abbiamo sviluppato nelle ultime settimane una specie di dipendenza.
L’attraversamento del Breiðafjörður dura circa due ore, ma farlo comodamente appollaiati sul ponte del traghetto è il pretesto che cercavamo perché, ingordi di paesaggi mozzafiato, vogliamo godere fino all’ultimo della luce incredibile di questi tramonti di fine estate, inimmaginabili altrove.
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