Partiamo per Manchester senza molte aspettative, se non il concerto di Ryan Adams, quasi impreparati e in fondo perfino increduli di riuscire ad andarci, nonostante tutto.
Non sappiamo cosa aspettarci da una città inglese di cui non sappiamo nulla, se non che ha dato i natali ai fratelli Gallagher e che è la prima città industriale, di quelle dei tempi della rivoluzione studiata sui libri di scuola.
Ci muniamo di una guida piccola e preziosissima, nonché la sola trovata, che promette un tour sulle tracce degli Smiths e di Morrissey, di cui pure non sappiamo molto, a parte alcune famosissime canzoni, riconoscibili fin dai primi attacchi: Please, please, please, let me get what I want o There is a light that never goes out o Bigmouth Strikes Again.
La primavera è cominciata oramai da un mese, ma possiamo, con ragionevole certezza, presumere che a certe latitudini debba ancora arrivare, e in particolare in una città che vanta una quantità di giorni di pioggia superiore a più di un terzo di quelli di un intero anno. E così, senza grandi smentite, venerdì all’ora di pranzo il nostro aereo atterra in una città grigia e uggiosa, in cui la gente, attorno a noi, cammina veloce, quasi correndo, sotto una pioggerellina fine, senza ombrello e sul lato “sbagliato” della strada, delle scale, dei marciapiedi.
Poiché non ci sono speranze che la pioggia possa smettere di scendere copiosa da un cielo plumbeo, privo di profondità, che cancella i contorni dei palazzi e le alte ciminiere, e sembra quasi assorbire il colore del caratteristico mattonato rosso, usciamo per mescolarci alla gente muniti solo di cappucci in testa e Dr Martens ai piedi. Non è forse di questa pioggia, che ti inzuppa fino alle ossa, che cantano gli Oasis in Live Forever?
Vorremmo andare alla Chetham’s Library, ma la prossimità all’orario di chiusura e la distanza da percorrere ci fanno optare per un’altra biblioteca poco distante, la Rylands, ospitata in uno splendido edificio neogotico e oggi parte integrante della Biblioteca dell’Università di Manchester. Fu inaugurata il 1° gennaio 1900 e contiene un’incomparabile collezione di libri tanto da farne indiscutibilmente una delle biblioteche più grandi del mondo. Fu voluta e progettata da Enriqueta Rylands in memoria di suo marito John Rylands, imprenditore tessile e grande filantropo di Manchester. La grande sala di lettura con le volte a sesto acuto tipiche dello stile architettonico neogotico ci danno l’impressione di essere sul set di un film di Harry Potter.
Intanto una lieve luce che filtra dalle vetrate composte di tondi fondi di bottiglia, ci invita a uscire e ad andare a esplorare la città. Ci dirigiamo verso Ancoats, e così come ci ricordano i cartelli stradali, guardiamo da entrambi i lati ad ogni incrocio. Questo quartiere è stata la prima periferia industriale del mondo e la sede della maggior parte delle industrie tessili dell’Inghilterra. Ci sono ancora gli edifici in mattini rossi e le ciminiere, e il vecchio e il nuovo convivono in maniera sorprendente: i mill (le fabbriche tessili) sono stati ristrutturati e al loro interno sono sorti bar, ristoranti e caffetterie. Notiamo che molti di questi edifici sono stati adibiti a nuove e moderne abitazioni affacciate sui canali, su cui sono ormeggiate barche immobili. La cosa che ci colpisce è il silenzio ovattato lì dove un tempo doveva invece risuonare il rumore assordante dei telai e delle macchine a vapore, le voci e il via vai frenetico degli operai a lavoro.
Da Ancoats è un attimo arrivare nel Northern Quartet, un vero e proprio museo della street art, costellato di birrerie, librerie indipendenti e negozi di dischi. Girovaghiamo senza meta e poi ci infiliamo da Affleck, grande alveare di creatività e spazio protetto in cui artisti, creatori e produttori possono sperimentare e proporre prodotti nuovi, rielaborati o semplicemente rigenerati. Curiosiamo tra i 3 piani di negozi in cui vige la legge dell’effimera bellezza del superfluo, il desiderio di possedere cose che possano farti sentire te stesso, che possano aiutarti a esprimere qualcosa di te che non riusciresti a manifestare in alcun altro modo. Ma il Northern Quartet è anche il posto in cui si trova Oldham Street, parola da cui parte la canzone che proprio Ryan Adams dedica alla città:
Oldham streets built to bruise
Freckled face and a pair of shuffling shoes
Hot pink and red, rain and booze
Running fast past the cotton mill crews
Ne siamo certi: domani la canterà durante il concerto, siamo qui anche per questo, questo suo amore incondizionato per Manchester.
Dopo cena, prima di rientrare in hotel andiamo a cercare al Tony Wilson Place di First Street una statua di epoca sovietica di Engels. Smantellata da una cittadina ucraina, a sud est di Kiev, quando il Paese rivendicò la sua autonomia e la sua indipendenza da Mosca fu portata qui, attraverso tutta l’Europa, perché è qui che il filosofo tedesco visse per oltre vent’anni, inviato dal padre a lavorare nel cotonificio di famiglia, è qui che cominciò a scrivere la sua opera più celebre La situazione della classe operaia in Inghilterra ed è a Manchester che frequentò alla Chetham’s Library Karl Marx.
Questo austero e imponente monumento alto più di 3 metri stride tra supermercati e caffetterie, tra insegne luminose e tavolini all’aperto, così come risulta insopportabile e angosciosa l’idea che oggi possa rimanersene qui, a osservare dall’alto i passanti di una tranquilla città del nord dell’Inghilterra, mentre il posto da cui proviene è teatro di una delle guerre più ingiuste del XXI Secolo. Sabato mattina è una bellissima giornata.
Appena fuori dall’hotel, in St. Peter’s Square c’è la statua in bronzo di Emmeline Punkhurst: attivista e politica che guidò il movimento delle suffragiste britanniche, madre del pensiero femminista, ritratta in piedi su una sedia nell’atto di incitare le donne a “protestare”, a insorgere. È lì a sottolineare la potentissima anima femminile che possiede questa città, che mai contraddice la sua vocazione industriale e operaia, ma che trova la giusta spinta per petizioni che si protraggono per più di mezzo secolo, per dimostrazioni pacifiche e a volte anche per quello sporadico ricorso alla violenza contro cose ed edifici soffocato sempre con l’arresto e la detenzione delle manifestanti e con la brutalità di tecniche rudimentali di alimentazione forzata. Approfittiamo del sole per andare a zonzo attraverso il quartiere cinese e, passando poi per Piccadilly Gardens e il distretto commerciale, arrivare fino al quartiere medievale dove sorge la Cattedrale di Manchester, incredibile edificio gotico sopravvissuto ai bombardamenti della seconda guerra mondiale. Inizialmente dedicata a St Mary, St Denys e St George era una chiesa di campagna lungo il fiume Irwell. Al suo interno è caratterizzata da un’ampia navata, la più grande, pare tra le chiese d’Inghilterra, per un curioso motivo: era infatti in uso tra i ricchi mercanti della città, che prosperavano grazie al commercio della lana, sovvenzionare e far costruire delle cappelle votive inglobate all’interno dell’edificio e dotare ciascuna di un prete pagato per pronunciare preghiere per le anime dei membri defunti delle famiglie stesse dei donatori. Con la Riforma tale pratica venne bandita e tutte le cappelle “private” demolite, lasciando in piedi solo i muri perimetrali, quelli che oggi accolgono fedeli e visitatori.
Fu poi solo nel XIX Secolo che la piccola città di Manchester divenne la prima grande città industriale del mondo e la chiesa di campagna venne eletta a cattedrale. Fuori, oltre i rami fioriti degli alberi, si intravedono le tipiche decorazioni gotiche, i gargoyles e la madonna dorata che avvolge Cristo bambino in uno scialle, simbolo dell’eredità industriale e tessile di Manchester.
Facciamo un salto alla Stazione Victoria, e rimaniamo incantati a guardare una vecchia mappa della rete ferroviaria e marittima, che già in epoca coloniale consentiva i collegamenti con il continente, fino ad Amsterdam, Amburgo e perfino Zeebrugge, che sorprende ed esalta chi riconosce in esso attualmente il maggior terminale europeo per il gas naturale liquefatto. Torniamo verso l’hotel passando per il coloratissimo Gay Village su Canal Street, pieno di bar, ristoranti e discoteche, dove oggi è difficile immaginare la vita di clandestinità e il regime di terrore che vigeva in questi luoghi, tra la fine degli anni ’80 e i primi anni ’90 dopo l’entrata in vigore, il 24 maggio del 1988, della Clause 28 (Sezione 28), votata dal governo conservatore di Margaret Thatcher, che obbligava le autorità locali a “non promuovere intenzionalmente l’omosessualità o pubblicare materiale con l’intenzione di promuovere l’omosessualità”. È una legge che oggi non esiteremmo a definire discriminatoria, nata in un periodo storico in cui le comunità lgbtqia+ di tutto il mondo erano sterminate dall’aids e gay, lesbiche e trans erano generalmente visti dall’opinione pubblica come untori. Nel 1989 i procedimenti giudiziari per atti omosessuali consensuali raggiunsero il picco massimo mai registrato, anche se nel Regno Unito l’omosessualità era stata già decriminalizzata nel 1967, ma l’abrogazione della Clause 28 avvenne solo nel 2003.
A fronte della violenza e dell’odio voluti e incoraggiati dalla norma e perpetrati dalle forze dell’ordine, la comunità gay di Manchester strinse una forte alleanza con il consiglio comunale laburista e anticonformista, che solo in questa parte di mondo è immaginabile all’epoca, e che riuscì a far convogliare buona parte dei fondi pubblici sulla riqualificazione del quartiere.
Quello del Gay Village di Manchester è un buon esempio di come l’omofobia e la marginalizzazione, soprattutto quando sono incoraggiate e cavalcate dalla politica, possono essere combattute a muso duro con l’attivismo e l’informazione prima di tutto, ma anche con la forza liberatoria del ballo e della musica.
Ci sembra quasi di percepire il motivo per cui questa città sia stata prolifica di così tanti e validi musicisti: perché nel suo cuore batte forte il dissenso per le ingiustizie e le discriminazioni; e quale migliore strumento per esprimerlo, se non la musica, così diretta e immediata?
Ed ecco anche perché questa città è un mosaico di storie e biografie, e i suoi monumenti sono le persone che l’hanno abitata e che scelgono oggi di viverci, è una fucina di nuove tendenze, è un crocevia di destini, un crogiuolo di vite che hanno segnato la storia di buona parte dell’Occidente.
Ed ecco perché l’ape è stata eletta simbolo della città: per la sua gente operosa e instancabile, per il suo spirito di solidarietà e cooperazione.
Poco distante da Canal Street, nei Sackville Gardens, c’è una statua in bronzo, che rappresenta un’altra icona di Manchester. Alan Touring è seduto su una panchina con una mela in mano e la targa commemorativa riporta: “Alan Mathison Turing, 1912-1954. Padre dell’informatica, matematico, logico, decifratore di codici in tempo di guerra, vittima del pregiudizio”. È quest’ultimo appellativo, che più degli altri colpisce. Perché nonostante sia stato capace di inventare una macchina in grado di decifrare i codici di Enigma, il dispositivo utilizzato dalle forze armate tedesche per criptare i propri messaggi, nonostante sia riuscito ad anticipare alcuni degli attacchi più distruttivi di quella guerra, preservando migliaia di vite umane, nonostante gli si possa probabilmente attribuire l’anticipazione della fine del secondo conflitto mondiale, assicurando la vittoria alle forze alleate e salvando l’Europa da una terribile dittatura, ha vissuto gli ultimi anni nell’oblio, dopo aver confessato la propria omosessualità. Arrestato si sottopose alla castrazione chimica mediante iniezioni di ormoni femminili e la profonda depressione originata dai cambiamenti del suo corpo, le difficoltà motorie e la solitudine lo spinsero al suicidio. Accanto al suo corpo fu trovata una mela intrisa di cianuro di potassio. Quello stesso frutto che è simbolo del peccato originario, dell’albero della conoscenza, dell’amore proibito, che ha ispirato le teorie di Isaac Newton, la rappresentazione disneyana della morte apparente di Biancaneve e probabilmente anche Steve Jobs, che lo scelse come logo della sua società, fondata in un garage di Los Altos in California.
Abbiamo un concerto importante stasera, è ora di andare a mangiare qualcosa e poi siamo anche molto curiosi di vedere come si svolgono questi eventi, qui su quest’isola, che è stata anche tanto restia ad adottare misure di distanziamento e precauzione durante la pandemia.
Prima di entrare nel teatro la coda è allegra e disciplinata, c’è veramente tanta gente e sono tutti abbigliati nei modi più disparati: piove ancora ma questo non spaventa le signore inglesi dall’indossare sandali aperti con tacchi alti e vestiti molto leggeri.
Nel teatro sulle spalliere dei sedili un qrcode invita a scansionare il menù e ordinare direttamente dal bar presente nel foyer e in fondo alla sala. Incredibile, ma solo per noi, perché la gente comodamente seduta nelle poltroncine di velluto rosso si fa portare hot dog straripanti di senape e maionese, patatine croccanti e bibite in bicchieri di plastica privi di cappuccio direttamente al proprio posto.
Proviamo a traslare questa scena in uno qualunque dei nostri teatri, impossibile che si possa mai verificare, visto che anche il rumore di una caramella scartata suscita indignazione e mugugni.
In questa atmosfera rilassata ci godiamo un concerto bellissimo, inframmezzato da qualche battuta tra il cantante e la platea, pronta a esprimere la propria e rispondere alle provocazioni.
Domenica mattina su Manchester il cielo è tornato grigio, ma abbiamo ancora un sacco di tempo prima di rientrare in Italia.
Andiamo a Salford, un comune a sé stante rispetto a Manchester, ma ad appena 15 minuti di tram da St. Peter’s Square. Qui in epoca industriale arrivavano da Liverpool le navi cariche di cotone grezzo, importato dall’America per esser lavorare nelle fabbriche. Lo skyline è dominato dal vetro e dall’acciaio che hanno sostituito quasi del tutto il mattonato rosso e il Quayside, oggetto di riqualificazione estrema, è oggi costituito da strade, ponti sul lungofiume, ormeggi e strutture per sport acquatici, hotel, cinema, ristoranti, negozi, teatri e gallerie d’arte. Una di queste ospita una magnifica collezione interamente dedicata a Laurence Lowry, pittore di fine Ottocento famoso per aver ritratto, più di qualsiasi altro artista, la vita e le persone dei distretti industriali dell’Inghilterra. Eccola nuovamente su tela la città operosa, ecco le persone che vi vivevano e lavoravano, eccole nelle strade ricoperte di neve, e tra gli inconfondibili edifici di mattonato rosso.
Ma ci sono anche i reduci di guerra, i ricchi borghesi, un’intera e variegata umanità che, sebbene Lowry rappresenti mediante il ricorso a immagini stilizzate, in una folla di sagome senza ombra, appare sempre così caratterizzata. Il suo stile è inconfondibile e sembra travalicare i tempi, sembra quasi volerci preannunciare quella perdita di personalità che caratterizza le masse, che verrà dalla produzione ordinaria industriale e dalla globalizzazione, dalla solitudine e dallo scardinamento dei rapporti umani. È una visione potente di un’epoca, sono immagini che riescono a precorrere i tempi. Restiamo abbastanza perplessi per il fatto che non lo avessimo mai incontrato prima, in altre gallerie o mostre. Ci documentiamo ulteriormente e scopriamo che son stati girati anche due film sulla sua vita e il suo personaggio, di cui uno anche molto recente, “Mrs Lowry & Son“, in cui la parte del pittore è interpretata da Timothy Spall, il celebre volto di “Codaliscia” nella saga di Harry Potter.
Improvvisamente riconosciamo nel video Masterlan degli Oasis un omaggio a Lowry e al suo modo di raccontare Manchester.
È questa tristezza violenta, che non è mai malinconia, ciò che ci sembra possa accomunare Lowry e la musica degli Oasis, questa bruma, questo strato di pioggia misto a fumo che avvolge le espressioni degli uomini rappresentati dall’uno e che racconta le vite dei personaggi cantati dagli altri.
È questa sensazione claustrofobica da era postindustriale, che solo la prima città industriale del mondo poteva interpretare; è questa pioggia intermittente che, nel creare aloni attorno alle insegne sempre accese riflesse nelle vetrine dei negozi, restituisce quasi un senso di sospensione onirica, in cui immaginare un’altra dimensione è forse ancora possibile. Ci vogliamo vedere questa speranza nella forza dirompente della vita che anima questa città e nelle forme di arte che vi trovano espressione, nella sua capacità di essere creativa in maniera così dirompente
È come quel motto che abbiamo trovato su un muro nel Northern Quartet.
Speriamo che gli Oasis tornino insieme prima o poi.