A Skye c’è tutta l’Europa

Sbarcati su Skye, finalmente ottimisti nel percepire la fatica che stanno compiendo i raggi del sole nel farsi strada tra i nuvoloni bassi che sovrastano le nostre teste, proviamo a scrollarci di dosso tutte le incertezze della giornata e a invertire la rotta.
Invece di dirigerci a nord, verso un centro abitato in cui poter mangiare qualcosa, decidiamo di provare a raggiungere l’estremità sud della penisola di Sleat. Ma quella che sulla cartina sembra una breve distanza di poco meno di 4 miglia, si rivela invece una lunga strada tortuosa, e il dettaglio sugli oltre 60 minuti di cammino per arrivare fino al faro e alla spiaggia bianca sottostante, ne fanno l’ennesima falsa partenza della giornata.
Torniamo verso Broadford e proviamo a prendere posto nell’unico ristorante che, come da tradizione, è aperto 7 giorni su 7 e fino alle 9 di sera, e aspettiamo a lungo prima di poterci sedere a tavola, davanti a una birra e a un fish & chips. Scopriamo che il locale porta il nome della Claymore, l’antica spada usata dai guerrieri scozzesi tra il Medioevo e l’Età Moderna, e che nella sua variante con l’elsa a cesto è ancora in uso come parte dell’alta uniforme del reggimento degli Highlanders nella British Army. È vero che non ci si può nutrire di sola cultura, ma ogni tanto aiuta, quanto meno a ingannare l’attesa.
È buio pesto quando ci dirigiamo verso Ullinish e il bed & breakfast che abbiamo prenotato, che poi è anche il solo che abbiamo trovato disponibile ad aprile, quando abbiamo programmato il giro. Perché Skye non è semplicemente la più grande isola delle Ebridi interne, è anche la più visitata. Soprannominata l’isola della brume promette scogli e falesie, lande e torbiere, spiagge e fari, pecore e mucche dal manto foltissimo e ogni specie di uccello migratore.
Dopo aver preso possesso della stanza, per evitare che il giorno successivo lo si trascorra interamente a scegliere dove andare e cosa fare, proviamo, guide turistiche alla mano, a stendere un itinerario abbastanza dettagliato. Ancora ignari del concetto di viabilità sulle single track road delle Highlands e delle sue isole.
Il mattino dopo è ancora un po’ nuvoloso, le previsioni promettono schiarite solo nel pomeriggio, ma il nostro piano recita: prima tappa Neist Point, il punto più a ovest dell’isola con faro e scogliera. Il navigatore calcola che riusciremo a percorrere le circa 20 miglia in poco meno di 45 minuti. Non avendo alcuna dimestichezza con questa unità di misura, facciamo un atto di fede e partiamo per queste strette stradine sinuose. Osservando gli altri automobilisti, apprendiamo velocemente l’uso dei Passing place, posti in maniera alternata ora a destra ora a sinistra della strada e la sosta obbligata secondo il senso di marcia nel momento in cui si incrociano altri veicoli, o la retromarcia a volte necessaria per rientrare sul più vicino posto di sosta, e l’attesa per lasciar passare, e poi i saluti con la mano, e i ringraziamenti nel momento in cui qualcun altro lascia che tu ti muova per primo. Tutta una serie di riti che vedono il nostro navigatore testimone di un tempo di percorrenza che non scorre e di miglia che non diminuiscono.
In effetti c’è veramente tantissima gente e tante sono le persone che arrivano fino in Scozia con le proprie auto con la guida dal lato opposto, o i propri van, convertiti in camper, enormi per queste strade impervie, che contribuiscono a rendere tutto ancor più eccitante e dall’esito incerto.
Alla faccia della velocità pronosticata dei circa 40 chilometri orari, dopo oltre un’ora raggiungiamo finalmente  il vertiginoso promontorio roccioso tanto agognato, quello da 3 pallozzi sulla Routard, dominato da un solitario faro bianco esposto alle intemperie e sferzato dal vento.
Sull’orizzonte si intravedono i profili delle Ebridi esterne, forse Harris e Lewis o forse il nord dell’isola di Uist. Sotto un cielo che appare immenso il mare è grigio argento e poco mosso, l’umidità è talmente tanto densa da sembrare acqua vaporizzata; sul viso e sulle labbra si avvertono il peso e il sapore del sale. Ci fermiamo in diversi punti per lo scatto perfetto e per qualche ripresa con il drone. È senza dubbio un posto che affascina, oltre il semplice incanto della luce eterea, che seduce, oltre la magia della vista che si spalanca sotto i nostri piedi a più 40 metri sul livello del mare. Sembra tutto meraviglioso, fin quando il vento non si placa e uno sciame di fastidiosissimi moscerini non ci assale. Avevamo letto della loro esistenza, i famigerati midges, e snobbato le raccomandazioni di munirsi di sciarpe per collo e viso, perché in fondo anche lo scorso anno, in Islanda sul lago Mývatn, alla fine non si erano visti affatto; ma questi sono reali, sembrano furie indiavolate, sono veramente molesti e si infilano ovunque ronzando e mordendo. Irritati ci avviamo velocemente e a testa bassa lungo la salita, che irta riporta al parcheggio dove abbiamo lasciato l’auto. Ci richiudiamo le portiere alle spalle sperando di averli lasciati fuori dall’abitacolo della nostra vettura e impostata la seconda tappa sul navigatore siamo pronti a partire.
Dopo aver percorso pochi metri finiamo in coda a una lunga serie di macchine incolonnate. Qualcuno di noi deve scendere e andare a vedere cosa succede. Appreso che si tratta di un van rimasto bloccato sulla carreggiata, ci poniamo pazienti in attesa e ammazziamo il tempo guardando su internet le immagini dei film girati in questi posti, Le onde del destino di Lars von Trier o 47 Ronin con Kanu Rives. Dopo oltre mezz’ora, qualcun altro tra noi decide di approfondire il tema dell’essere rimasti bloccati e si unisce al formicolio di altri automobilisti che sciamano fuori dalle proprie macchine e, contrariati si muovono in un’unica direzione, spinti dalla presunzione di poter essere in qualche modo risolutivi. Lo scoprire che è francese, il maldestro conducente di van, che in un’ardita manovra ha ostruito il passaggio sulla single road, tramuta in un attimo lo spirito altruistico in solidarietà avversa. C’è ora tutta l’Europa, italiani, spagnoli, tedeschi, belgi, a sbeffeggiare il malcapitato e a proporre di liberare il passaggio, spingendo l’ingombrante veicolo sul fianco, capovolgendolo e facendolo rotolare oltre il margine della strada.
In attesa di improbabili soccorsi, vengono eliminati arbusti e cespugli e oltrepassiamo l’ostacolo quando è oramai ora di pranzo.
I nostri piani sono tutti da rifare: i posti visitabili chiudono alle 5 del pomeriggio e le strade, ora lo sappiano, possono riservare imprevisti e inconvenienti dietro ogni curva. Riusciamo a mangiare un panino in una panetteria prima che chiuda, e ci dirigiamo verso il Dunvegan Castle.
Come molte fortezze sorge su uno sperone di roccia che si affaccia su un lago, poco distante dalla costa, dietro mura merlate. Vi si accede passando attraverso un ponte di pietra circondato da splendidi giardini infestati da moscerini, che decisamente non rendono attraente alcuna sosta o indugio. Ci precipitiamo verso il portone di ingresso e su, lungo la scala che porta al salone principale, sperando di aver seminato, almeno per un po’, questi orribili insetti. Ci imbattiamo quasi subito in quella che è considerata l’attrazione maggiore del castello, la Fairy Flag, ciò che resta di un drappo in seta databile tra il IV e il VII Secolo proveniente dalla Siria o forse da Rodi, la cui origine è alternativamente, e non necessariamente in contrapposizione, attribuita alle fate o ai Crociati. È tuttora un importante talismano con poteri protettivi per il Clan dei MacLeod, ma a noi sembra solo un pezzo di stoffa abbastanza malconcio, privo di fascino.
Attraente appare invece lo sporran ricavato dal pelo di una lontra posto in una teca proprio sotto il dipinto a olio di uno dei capostipiti del clan.
Apprendiamo i primi rudimenti sul kilt e sul tartan e sull’uso di queste coreografiche borsette di diverse fogge.
Girovaghiamo per le altre stanze in cui sono esposti trofei di caccia, puffin impagliati, ingegnosi strumenti di varia natura, cimeli giacobiti, tra cui anche una ciocca di Bonnie Prince Charlie, e in cui sono narrate le vicende avventurose di questa famiglia, che prese parte alla rivoluzione americana e alle guerre in India al fianco dell’esercito britannico.
Uscendo facciamo caso al motto del clan: Hold Fast, connesso alla storia del toro sconfitto da uno dei capostipiti e il cui corno ancora oggi funge da prova di “virilità” per ogni erede che deve necessariamente cimentarsi nel vuotarlo del bordeaux di cui viene riempito, in un sol sorso, without setting down or falling down, come vuole il rito.
Con ancora nelle orecchie l’ostinato ronzio dei moscerini e nel cervello quello ameno delle mirabolanti imprese della famiglia che ancora oggi abita il castello di Dunvegan, torniamo verso sud, verso la distilleria Talisker.
È incredibile quanto distintamente si avvertano, fin dal parcheggio, le esalazioni dell’orzo in fermentazione negli enormi alambicchi di rame. Qui il whisky è prodotto da un single malt affumicato alla torba, che è cio che gli conferisce l’odore intenso e molto particolare e che na fa uno dei migliori della Scozia.
L’orario delle visite è terminato quindi ci accontentiamo di entrare nello shop per curiosare tra le bottiglie e i souvenir. Ovunque troviamo scritto “Talisker made by the sea” e ci lasciamo ammaliare a tal punto da spingerci a cercare la Talisker Bay, una piccola spiaggia di ciottoli circondata da alte falesie, oltre pascoli e brughiere, varcando cancelli e attraversando proprietà private.
Sarebbe splendido aspettare qui il tramonto, ma è ancora estate e le giornate possono essere insopportabilmente lunghe. Decidiamo di tornare a Carbost per cenare in un pub vista lago all’interno di una vecchia locanda molto rumorosa e molto accogliente. Peccato solo che, nonostante l’ottima birra, il menù proponga sempre le solite 3 cose, di cui cominciamo già a essere stanchi. Ci lasciamo così consolare dai morbidi colori rosati di un cielo finalmente sereno che si riflette sullo stretto specchio d’acqua. La mattina successiva, prima di lasciare l’isola dal ponte che la collega a Kyle of Lochalsh, restiamo ancora un po’ a osservare questi sorprendenti panorami che si svelano dietro ogni curva, oltre ogni promontorio. Consapevoli che ci sarebbe ancora moltissimo da vedere, ci allontaniamo lentamente, ripromettendoci di tornare in questo splendido paradiso. Ci ricordiamo di un’altra isola, che anni prima avevamo definito tale, Sylt, a largo della penisola dello Jutland. Anche lì le brughiere costellate di edera, le mille sfumature tra il bianco ottico e il blu profondo di un mare che diventa cielo per tornare a essere mare oltre l’impercettibile linea dell’orizzonte, e il garrire degli uccelli intenti a pescare immobili sorretti solo dalle potenti raffiche di vento; tutto era ed è pace profonda trasfusa dal silenzio della natura, ma in un attimo si tramuta in irrequietezza, come accade quasi sempre nel succedersi di forti impulsi sensoriali e psichici che si trasformano in emozioni.

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