Appena atterrati a Manchester, molliamo i bagagli in hotel e corriamo a prendere il primo treno per Liverpool. Nel vagone in cui viaggiamo notiamo una strana concentrazione di lustrini, braccialetti con lettere impilate, stivali argento, cappelli rosa da cowboy. Ma siamo ancora intontiti dall’alzataccia e dalle oltre 4 ore di viaggio per capire di cosa si tratti.
Nell’ampia stazione di Liverpool tutto sembra decuplicarsi: migliaia di ragazze sciamano rumorose dai binari di Lime Street, seguite a breve distanza da genitori, che potrebbero avere la nostra età o poco più. Sta piovigginando ma non possiamo non notare che l’imponente edificio neoclassico del Saint George’s Hall espone tra le colonne un enorme striscione con su scritto TAYLOR – Liverpool loves TAYLOR.
Ah, prendiamo finalmente coscienza del fatto che oggi, la nostra prima volta nella città dei Beatles, assaggeremo un pizzico dello strapotere mediatico della giovane cantante americana e della follia collettiva delle sue swifties, in una delle 152 date dell’ERAS TOUR.
Scopriamo che sono oltre 10 le installazioni a tema in tutta la città, cosicché la casa dei “Fab Four” e di Sir George Martin, dei Lighting Seeds e delle Atomic Kitten, di Frankie Goes to Hollywood e di molti altri possa diventare una Taylor Town, almeno per una settimana.
Ci aggiriamo curiosi per il centro, fino in Mathew Street, alla ricerca del Cavern, lo storico locale che ha visto esibirsi i Beatles ben 292 volte. Originariamente era un magazzino di frutta tropicale, il cui odore impregnava talmente tanto l’ambiente da rimanere attaccato agli abiti dei suoi avventori, ma è stato chiuso nel 1973 per un progetto di una ferrovia britannica sotterranea, mai realizzata, e poi ricostruito proprio lì accanto. Le cianfrusaglie e i souvenir a tema Beatles sono ovunque e regna una strana elettricità nell’aria. È sabato, pensiamo, si staranno preparando per la serata, sempre se ci sarà ancora qualcuno in giro, che non andrà all’Anfield Stadium a vedere lo show di Taylor Swift.
Pranziamo in un ampio locale con musica dal vivo, che promette boccali di birra e piatti bavaresi, perché perfino la cucina tedesca è preferibile a quella inglese.
E nel primo pomeriggio, quando sembra che il sole sia riuscito ad affacciarsi anche qui, a ovest della foce del fiume Mersey, ci affrettiamo verso i moli del porto dove la luce si fa più vivida. Vorremmo affrontare il British Music Experience, museo che ripercorre la storia della Gran Bretagna nella sua veste di colosso della musica, dalla British Invasion degli anni ’60 fino ai talent show dei primi anni 2000, ma siamo veramente molto stanchi e preferiamo goderci ancora un po’ il folclore delle swifties, con il proposito di ritornare, magari per un intero week end.
C’è un po’ di coda per fare la foto con i Beatles che passeggiano sul lungomare, ma la prospettiva con il Royal Liver Building dietro, vale tutta l’attesa.
Qualcuno rimprovera scherzosamente una giovane turista giapponese, che si era incautamente frapposta tra il suo obiettivo e la statua dei Beatles, perché a suo dire, non hanno, come popolo, ancora finito di scontare la pena a cui è stata condannata Yoko Ono: la “sola” vera causa dello scioglimento e della fine del gruppo più amato di tutti i tempi.
Ci divertiamo a trovare l’angolazione giusta in cui possano comparire i 4 più noti cittadini di Liverpool e sullo sfondo i 2 enormi liver birds, i 2 cormorani, simboli della città, creature mitiche che si trovano, sopra le torri munite di orologi. Bertie e Belle, alti 5 metri e mezzo, guardano in direzioni opposte, a quanto pare per un preciso motivo: uno verso il mare, per assicurarsi che i marinai tornino a casa e l’altro verso la città, per controllare che i pub siano ancora aperti. Il Royal Liver Building, il Cunard Building, che ospita il museo della storia della musica britannica, e il Port of Liverpool Building costituiscono le 3 grazie della città, miracolosamente sopravvissute ai bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale. Sono stati costruiti all’inizio del Novecento come dimostrazione di potere e ricchezza, quando Liverpool era ancora uno dei maggiori porti del mondo.
Mentre passeggiamo per il molo osserviamo altre swifties che lasciano brillare le proprie paillettes, fanno tintinnare i molteplici braccialetti dell’amicizia fatti di perline con messaggi tratti dai testi della cantante, scattano selfie sorridendo davanti agli schermi dei propri cellulari. È il XXI Secolo, e non l’ha inventato Taylor Swift, che è solo una ragazza poco più che trentenne nata a West Reading in Pennsylvania, cresciuta vicino a una piantagione per alberi di Natale e formatasi come artista country a Nashville.
Ma nell’era della controversa rivoluzione woke, di pretestuose guerre culturali e resistenze patriarcali, della negazione del diritto all’aborto, dell’irrigidimento dei confini e delle politiche migratorie, quest’artista è la migliore risorsa del presidente Biden, è l’asso nella manica dei democratici, la sola che possa far credere che un pianeta più queer e multietnico sia preferibile a qualsiasi altra alternativa. E lo fa in maniera discreta, ma comunque dirompente. Strizza l’occhio allo sport più nazional popolare che ci sia negli Stati Uniti mentre si schiera a favore di rivendicazioni più progressiste tramite i social network. È una ribelle, ma è anche rassicurante: lo testimoniano la miriade di genitori che oggi assecondano i propri figli, spendendo per loro centinaia di euro per acquistare biglietti e merchandising, che sono disposti ad accompagnare i minorenni agli show della loro beniamina, indossando abiti dai colori sgarcianti e dalle fogge improbabili.
Sull’Albert Dock, un complesso di edifici portuali e magazzini ci ricorda immediatamente la natura e il carattere fondamentale di questa città. Furono i primi al mondo ad essere interamente ignifughi, grazie alla loro costruzione in solo ferro, mattoni e pietra, senza legno strutturale, e il molo fu il primo ad essere dotato di gru idrauliche. Oggi ospitano molti musei e gallerie d’arte, perfino una sede della Tate di Londra, al momento chiusa per ristrutturazione fino all’anno prossimo.
Girovaghiamo ancora un po’ per la zona a ridosso del porto sotto un cielo che cambia umore dietro ogni isolato. Le strade che attraversiamo sono stranamente familiari, sembrano già viste, e in effetti Liverpool ha fatto spesso da sfondo in numerosi film, serie TV e video clip sostituendo New York, Londra, Chicago e perfino Mosca.
Esausti passiamo ancora per Mathew Street, la Central Library e andiamo a cercare la Superlambanana. Oggi ricoperta dei colori dell’Ucraina, è una scultura creata alla fine degli anni ’90 da un artista giapponese, Taro Chiezo, in occasione dell’apertura della filiale della Tate a Liverpool, è insieme un po’ banana e un po’ agnello, un tempo carichi frequenti nei movimentati moli della città, e oggi nuova mascotte, rappresentata su souvenir di qualsiasi tipo.
Rispetto a Manchester questa è una città decisamente più turistica, probabilmente i costi delle abitazioni e dei servizi sono più alti e infatti troviamo anche manifesti che invitano a spostarsi nella vicina città mancuniana, assicurando un’abitazione più che dignitosa a chi a Liverpool vive da homeless.
Il nord della Gran Bretagna, che per tanto tempo abbiamo ignorato, ci ha quasi del tutto ammaliato, per la sua inattesa cordialità, il suo fascino sobrio, le sue attrazioni notevoli eppure non così popolari e nonostante la pioggia costante e un cielo che predilige tutte le gradazioni di grigio.
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