Sono tantissime le ore di volo che separano Milano da Seattle, e poi Seattle da Jackson Hole, per questo impieghiamo quasi 2 giorni interi per attraversare 9 fusi orari più uno a ritroso, e un numero incalcolabile di meridiani. Ma il pomeriggio del 10 agosto finalmente siamo lì, nel cuore delle Montagne Rocciose, ai piedi del Teton Range, che emerge a sorpresa dalla valle su cui atterra il nostro volo. Le orecchie restano tappate per l’alta quota e c’è un po’ di foschia: entrambe le cose contribuiscono a rendere il tutto ancor più irreale e così incredibile. Anche la porta di ingresso dell’aeroporto, con il suo arco di corna di alce intrecciate, è parte di questo momento di incontenibile e inspiegabile felicità.Ritirata l’auto a noleggio partiamo alla ricerca del Mormon Row Historic District, l’insediamento di una comunità di mormoni di fine ‘800, nonché una delle immagini più iconiche del west americano. Si tratta di una serie di fienili e case in tronchi poco distanti gli uni dagli altri, che raccontano la storia di famiglie che, alla cultura dell’homesteading tipicamente americano, preferirono la vita di comunità: vissero, lavorarono, pregarono ed educarono i propri figli secondo principi e ideali opposti a quelli del duro e spietato individualismo. Osservare ciò che resta di questi edifici significa comprendere quanto dovesse essere difficile la vita, per la scarsità di acqua e i lunghi inverni, e passeggiando tra i folti cespugli di artemisia, in cui si nascondono innumerevoli roditori, possiamo solo immaginare lo spirito pioneristico di persone che, in forza dell’Homestead Act del 1862, vollero fare di questo posto la propria casa, animati dalla speranza di cominciare una nuova vita. Ci misero molto di loro stessi e dei loro cuori nel costruire le case, una scuola, una chiesa, nell’allevare bestiame, nel coltivare fieno ed erba medica. Ed è forse questa consapevolezza che rende il posto di una bellezza straziante: i fienili che si impongono sotto il profilo delle imponenti montagne, la luce del sole che ne rivela brutalmente tutta la loro precarietà, mentre le cime immutate da millenni sullo sfondo restano in ombra. Prima di rimetterci in auto, poco distante da noi, nell’erba alta, sotto la luce morbida del tramonto, un divertente set fotografico attira la nostra attenzione. La piccola cittadina di Jackson non ha moltissimo da offrire se non negozi di souvenir in pieno spirito west: cappelli e stivali da cowboy, abbigliamento pesante per escursioni e sport invernali, artigianato presumibilmente di foggia e origine nativa-americana. Il suo nome è in onore di un cacciatore di pellicce che fu tra i primi a stabilirsi in questa valle, quando era ancora abitata da diversi gruppi di nativi, tra cui i Blackfoot, gli Shoshone, gli Arapaho. Ma la cosa più incredibile e curiosa è che in questo angolo di mondo, così turbolento in quanto teatro di innumerevoli battaglie per il dominio del territorio da parte dei coloni, abitato da uomini rudi in condizioni di vita estrema, fu eletto nel 1920, un consiglio comunale composto esclusivamente da donne, dando nuova linfa allo spirito pioneristico del Wyoming, che aveva già guadagnato il soprannome di “Equality State“, quando già nel 1869 divenne il primo stato a garantire il diritto di voto alle donne, ben mezzo secolo prima del resto del Paese, e il primo a eleggere una governatrice donna nel 1924.
Da luogo che attraeva coloro i quali volessero fare “esperienza” di vita da cowboy, tant’è che il suo stemma è proprio un cowboy in equilibrio precario in sella a un cavallo mentre agita un cappello, nei primi anni ’60 del XX Secolo Jackson Hole si è trasformata in località sciistica molto rinomata, con impianti moderni e resort di lusso, senza in questo però compromettere la propria natura identitaria: lasciando che il suo centro mostri ancora gli archi di corna di alce intrecciate, uno per ogni angolo della sua piazza principale, edifici con facciate a vento, strade pavimentate e coperte in legno, stile vecchio west, proprio come quelle dei film; continuando a proporre i rodeo del fine settimana, affiancati da festival di musica estivi e farmers market del sabato mattina.
Dopo aver girovagato per il centro, ancora completamente storditi dal fuso orario e dalla stanchezza andiamo a Moose, per il check in della cabin che abbiamo prenotato, e per cenare. Restiamo incantati da questo ranch letteralmente immerso nel bosco, costeggiato dallo Snake River e ai piedi delle montagne. Rimaniamo per ore a guardare le cime bianche, ricoperte in parte dai ghiacciai, colorarsi di rosa al tramonto e crediamo di poter stare qui per sempre. Questi pinnacoli rocciosi esercitano un’attrazione magnetica e anche la storia assurda del loro nome, dato loro dai cacciatori di pelli canadesi che ci videro 3 seni (les Trois Tetons), il South, il Middle e il Grand, probabilmente in un momento di struggente nostalgia in queste terre selvagge e solitarie, rende tutto ancor più affascinante. E pensare che per gli Shoshone erano semplicemente le Teewinot, i molti pinnacoli, e che il nome del fiume che attraversa questa splendida valle nasce da una “svista”, quando il loro simbolo identificativo, semplici capanne di erba intrecciata, venne scambiato per un serpente.
La mattina presto questo posto incantevole si svela ancora più bello attraverso la finestra della nostra camera prima, e dal prato silenzioso poi, mentre consumiamo un’ottima colazione a base di pancake, uova e pancetta. Quando il sole è oramai alto torniamo nel Mormon District e poi risaliamo lo scintillante Snake River passando per ciò che resta dell’antico Cunningham ranch, in perfetto stile degli Appalachi, risalente anch’esso alla fine dell’800, e nato anch’esso in forza dell’Homestead Act. Ma qui la storia è completamente diversa, non c’è una comunità ma un singolo individuo che si batte per la propria sopravvivenza. J.P. Cunningham era uno newyorkese di appena vent’anni quando giunse in questa valle e dopo aver vissuto i primi anni di caccia ed espedienti vari, assieme alla giovane moglie rivendicò il possesso di 160 acri, su cui costruì la sua piccola fattoria e su cui cominciò ad allevare il bestiame. Ma il terreno poroso e poco produttivo e i lunghi inverni rendevano insufficiente la dimensione della terra posseduta in forza delle leggi federali di homesteading, poiché era necessario coltivare molto più fieno di quello necessario in analoghe fattorie dell’est del Paese per riuscire a sfamare il bestiame per più di sei mesi all’anno. Nel 1877, riconosciute le difficoltà degli allevatori dell’ovest, il Desert Land Act consentì agli allevatori di acquistare altri acri di terra a $1,25 ciascuno. Con immensi sacrifici Cunningham riuscì a pagare per ulteriori 140 acri, riuscendo a rendere finalmente sostenibile il suo allevamento, nonostante gli enormi costi di mantenimento e gestione. Ingrandì il suo fienile e cominciò a coltivare erbe mediche, la vicinanza del fiume e la costruzione di canali di irrigazione assieme alla sua perseveranza gli consentirono di superare le enormi difficoltà, i periodi di siccità e il crollo del prezzo del bestiame. Una storia di successo individuale quindi, che ha poco o nulla in comune con quella della comunità dei mormoni, ma che ha contribuito a plasmare in egual misura lo spirito pioneristico di questa valle. Quando nel 1929 fu creato il parco del Grand Teton molti allevatori, Cunningham compreso, vendettero i loro terreni a J.D. Rockefeller Jr perché li donasse allo Stato e affinché rientrassero tra quelli preservati, all’interno del parco, dal governo federale.
Nel raggiungere i vari punti panoramici sul lago Jackson, nella vasta pianura di Moran avvistiamo una mandria di bisonti. Prima sono piccoli puntini neri sulla linea dell’orizzonte, poi più avanti ci accorgiamo che alcuni di loro, distrattamente sono arrivati fin sul margine della strada. Non ricordiamo più quante siano le iarde di distanza raccomandate, restiamo semplicemente attoniti a scattare fotografie. Siamo al cospetto dell’animale simbolo indiscusso dell’ovest americano, il protagonista di tante storie, che nel bene e nel male hanno plasmato il destino di questa parte di mondo e dei popoli che lo hanno abitato.
In quel momento passa perfino in secondo piano l’avvistamento del nostro primo alce con un notevole palco di corna, per cui abbiamo fermato la macchina proprio nel bel mezzo di un incrocio, inducendo tanti altri passanti a fermarsi e a curiosare e a creare un vero e proprio ingorgo stradale. Gli scorci sui laghi e lungo lo Snake River con il profilo delle montagne sullo sfondo acquisiscono ulteriore meraviglia, estasiati e consci di essere davanti a posti dal fascino inatteso, che mai avremmo potuto immaginare. La sera dopo cena rimaniamo a guardare la luce del sole che lentamente degrada oltre il profilo del Teton Range e che compaiano le stelle assieme alla massa lattiginosa in cui sono immerse. E poi ancora la mattina successiva, prima di partire per lo Yellowstone, la forza attrattiva di questi panorami ci inchioda su un divano all’interno del Jackson Lake Lodge con gli occhi oltre le sue ampie vetrate.
Di tutta la fauna fotografata quella che preferisco è quella poggiata al cartello 182 mile incurante dei bisonti alle sue spalle
Anche io la preferisco. Infatti è la sola tipologia di bestiola che mi ostino ad allevare da anni e che ho riportato a casa 😍
❤️
Sempre top! Bello il ritorno della foto galattica, elegantissima l’ultima.
I posti ispirano!
Ottimo reportage 👏
Carissima Paoletta,ti ho sempre detto, e ribadisco, che chi legge, attraverso le tue descrizioni,rivive le sensazioni e le emozioni che trasmettono questi luoghi così speciali e così lontani da noi.
Ottimo anche il servizio fotografico!!!